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Viva l’Autonomia!

Ci siamo, Autonomia – di Mark Stewart & Primal Scream – è finalmente online! Il che segna il mio debutto come co-regista di video musicali. Oltre al fidato socio di avventure fotografiche Dominic Lee, ho avuto il piacere e l’onore di lavorare insieme a Douglas Hart, fondatore e bassista dei Jesus & Mary Chain e regista di una marea di video fantastici (Paul Weller, Stone Roses, Primal Scream, Horrors, Libertines, Vaccines…). Un team composto da tre cervelli un po’ schizzati che in qualche modo si sono sincronizzati a meraviglia. Oggi vedo con gioia che il video è anche tra i “recommended” sulla home page del Mercury Prize.

In attesa che esca The Politics of Evil, il nuovo album di Mark Stewart (leader della cult band Pop Group) che vanta di collaborazioni stellari come Massive Attack, Lee Scratch Perry, Kenneth Anger, Keith Levene e lo stesso Doug Hart, lasciatevi prendere dall’energia di questo appetiser… (Che con Bobby ci saremmo incontrati di nuovo, invece, non era un mistero).

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Grinderman: showcase, aftershow & full moon

(foto di fortuna scattata con l’iphone. Prendetevela con Nick che non mi ha dato un pass)

Dannata luna piena, non mi darai mai pace. A Peruginian lady werewolf in London. Quando arrivo al Garage, il piccolo locale nella putribonda fogna di Holloway road, avverto il bisogno impellente di ringhiare rock sudicio e depravato. Assistere ad un concerto dei Grinderman in una venue così piccola, è un privilegio unico e voglio godermi ogni istante, assaporarlo insieme a questi schifosissimi coca e rum in offerta. Attaccano subito con un’assatanata Worm Tamer, già collaudata dal vivo giorni prima, allo show televisivo di Jools Holland. Heathen Child è fatta di ruvida potenza, Kitchenette è un titolo ridicolo quanto un groove travolgente. Warren Ellis riempie la sala di pura energia elettrica, prima con la chitarra poi sollevando un muro di suono col violino, immediatamente disintegrato nell’esplosione psichedelica di When My Baby Comes, She Comes. Evil è pura isteria indemoniata, Nick Cave la dedica alla moglie – how sweet! – presente in sala. Il ritmo è talmente furioso che anche Cave inciampa, sbagliando i versi di una strofa. E’ perdonato: si riprende con un guizzo sotto il beat impeccabile di Jim Sclavunos. Martyn Casey fa il suo lavoro ma diciamolo, è il meno carismatico dei Grinderman; non che sia facile emergere accanto a quei tre mostri di magnetismo.

In questa canzone qui, dovrebbe fare: dudududu dududuudu”. Nick ricorre al suo innato senso dell’umorismo per mascherare l’incazzatura quando l’organo non funziona. Chiede aiuto al tecnico, anzi no, non c’è tempo, se ne frega e attacca Honey Bee. Senza chitarra tra le mani, punta il dito contro la folla in un Bad Seeds style. “Nervi. E’ solo questione di nervi se non so cosa fare con le mani quando sono sul palco” aveva confessato durante la nostra intervista un paio di mesi fa. No Pussy Blues è totale; Cave enfatizza ogni parola con un volto contrito, greve, frustrato, sintetizzando alla perfezione il dramma esistenziale d’ogni uomo da Seneca a Schopenhauer: no pussy, no party. Bellringer Blues – pezzo forte dell’album – è in versione ridotta (manca l’ultima strofa) con Nick che torna a puntare il dito contro il pubblico tra una scarica di organo elettrificato e l’altra. Grinderman, la canzone, è la dichiarazione d’intenti finale nonché l’augurio di cupa buonanotte. Finisce tutto nel giro di un’oretta, non è che il warm up del tour ed è chiaro che la band sta ancora ruminando su quale forma dare ai nuovi brani dal vivo. Per chi ha perso di vista i Bad Seeds live degli ultimi tempi, ed è rimasto alle ballate al piano di Into My Arms, potrebbe rivelarsi come un concerto shock. Chi invece si è gustato il tour di Dig Lazarus Dig! apprezzerà che la linea divisoria tra Grinderman e Bad Seeds si sta sempre più assottigliando, fino a convergere in brani pop come Palaces of Montezuma.

Nell’intima saletta dell’afterparty incrocio subito Jarvis Cocker, Bobby Gillespie (cominciavo a preoccuparmi, erano tre mesi che non lo incontravo) e Richard Hawley, già sbirciati durante lo spettacolo. E Nick Cave ovviamente. Con le dita gli disegno un punto interrogativo davanti al viso: “Ricordi?”. Sottointeso: l’intervista in cui eri in vena e ne hai inanellata una dopo l’altra? (vedi Buscadero di ottobre). Si ricorda, altrimenti non avrebbe avuto quell’espressione imbarazzata. Ma è gentile e ricambia il saluto. Incontro anche Jim Sclavunos, non è affatto contento di come sia andata la gig, obietta problemi al suono ma non vede l’ora di cominciare il tour. Eppure sono pronta a scommettere che, escluso l’organo svalvolante, gli unici in sala a non essere pienamente soddisfatti del concerto siano loro. Poi gli chiedo di chi sia stata l’idea di suonare lo showcase in una notte di plenilunio ma dice che non se ne erano accorti, è solo una coincidenza. Sarà, ma io continuo ad ululare, soprattutto quando vedo che qualcuno ha falciato la mia vespa spaccando la maniglia del gas e lasciandomi a piedi, a mille miglia da casa, nel bel mezzo della notte. Auuu! Fossero solo questi i problemi di noi licantrope…

O cling to me baby in this broken dream

You are the moon! Who needs the moon?

You are the stars! Who needs the stars?

O cling to me little baby in this broken dream

And let me protect you from this evil

Evil! Evil! Evil! Evil!

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Lù Rid, il pubblico meno: MMM@Royal Festival Hall

Dovevo veder-Lou prima di morire. O prima che muoia lui: non mi pare ridotto bene quando cammina sul palco, combattendo con la forza di gravità per rimanere dritto. E magari non sono la sola ad aver-Lou pensato. Al bar della Royal Festival Hall per la pinta pre concerto mi accorgo di essere in buona compagnia: Kevin Shields dei My Bloody Valentine, Warren Ellis, qualche altro Bad Seed sfuso e Bobby Gillepspie dei Primal Scream (cominciavo a preoccuparmi, non si vedeva da mesi). Dicono ci fosse anche Nick Cave ma deve essermi sfuggito. Quando entriamo in sala le luci sono accese, lo show non è iniziato ma nelle orecchie già rimbomba il suono di frittura mistica delle chitarre accese ed apparecchiate a tutto volume a ridosso delle casse. Lou Reed ci ha promesso una notte di deep noise ispirata da Metal Machine Music: l’album che ogni gestore di locale dovrebbe utilizzare per scacciare la clientela indesiderata (il video qui sopra è un’interpretazione divertente trovata su youtube). Si tratta di un’ora e passa di feedback di chitarra senza capo né collo ne capocollo: un vero toccasana per Lou dito.

Le luci si spengono e il feedback diventa più intenso. Reed appare, ha gli occhiali sulla punta del naso come un insegnante di fattezza urbana e attacca alla chitarra senza avere minima idea di cosa stia facendo. Ma non importa, noi siamo qui per adorar-Lou o anche solo guardar-Lou. Insieme a lù (scusate non riesco a fermarmi!) ci sono Ulirch Krieger e Sarth Calhoun: il primo al sax e il secondo allo smanettamento portatili Mac (impeccabile, soprattutto quando invia una friend request sincopata su facebook). Eppure non mancano i momenti magici, durano pochissimi secondi ma ci sono, li sento vibrare. Il sax di Krieger spinge tutto verso (vaghi) confini free jazz, alla John Zorn ma la chitarra di Reed rompe ogni logica, taglia ciascuna nota nello spazio e la libera con la foga di chi sgozza uno gnomo liutaio.

Quando Metal Machine Music usciva nel 1975, la critica non ha fatto altro che devastar-lou; nessuno capiva, Reed incluso: troppo Lou- ‘ngimirante, anni luce persino rispetto se stesso. Lo chiamarono un suicidio commerciale come se al leader dei Velvet Underground (uno dei più grandi innovatori di sempre, uno che la storia del rock l’ha scritta a caratteri cubitali) gliene importasse qualcosa del parere di noi sfigati giornalisti. Dopotutto, pezzi come Perfect Day, sono colpi di genio che possono nascere solo da un universo artistico egosintonico. Per questo sono rimasta incollata alla sedia fino alla fine mentre una marea di persone se ne sono andate. C’è anche chi ha tirato una bottiglia di plastica sul palco prima di andarsene: mi chiedo, imbecille, ma se non ti interessava perché non sei rimasto a casa ad ascoltare Transformer? Che stasera si sarebbe celebrato uno degli album più controversi della storia del rock, non era certo una sorpresa. Per il gran fina-Lou si alza, lascia la chitarra e fa risuonare un gigante gong con potenza brutale: i superstiti si svegliano di soprassalto dalle sedie. Le luci si accendono e la sala appare improvvisamente dimezzata. C’è chi fischia ma sono più quelli che applaudono. Lou barcolla, ringrazia e addirittura stringe la mano e firma vinili a chi gli va incontro. Non l’avrei mai detto: umanamente è uno stronzo ass-o-lou-to. Ma non mi bastava sapere che va in giro per l’East Village con le Crocks fucsia per intuir-Lou fulminato, dovevo ascoltar-Lou con le mie orecchie. Che non capita tutti i giorni di trovarsi davanti una Lou ‘ggenda.

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Close encounters of the Primal kind

weird!!!Devo smorzare la tensione politica creatasi qui dentro nel giro di due giorni. Veramente avrei un bel concerto di cui parlare ma prima vorrei lavorare sulle foto, dunque per ora mi limiterò a scrivere un post del tutto inutile. Si tratta di un fatto piuttosto curioso che comincia davvero a insospettirmi. Da quando ho intervistato Bobby Gillespie dei Primal Scream e concluso l’articolo scrivendo un “see you later Bobby” io non faccio altro che incontrarlo in giro per Londra! Già il giorno dopo l’intervista lo incontro del tutto per caso a una mostra nella West End, episodio che ho doverosamente raccontato nell’intervista e va bene. Il fatto è che poi l’ho incontrato di nuovo in un pub, perfetto, altra coincidenza. Poi lo ri-incontro all’uscita del concerto degli AC/DC, 20.000 persone che escono dalla O2 arena, mi giro, lui è accanto: “hi!” “hi!”. Altra coincidenza… Ieri sera a un concertuolo alla Electric Ballroom di Camden, mi giro e chi era di nuovo accanto a me a vedere la gig? BoBBY!!! Strafatto come una pigna arzilla, saluto veloce e timido come sempre e io che a quel punto me la facevo sotto dalle risate. Ora mi chiedo, è un segno del destino? In Jamaica ho imparato che quando  capitano cose del genere non è mai per caso, sono dei segni inequivocabili, questo dicono i rastafarians. Forse Jah vuole che mi unisca come chitarrista e corista ai Primal Scream? Mi ci vedete accanto a Mani (semberebbe mio nonno) sul palco??? E con questa stronzata mondiale posso dichiarare i toni di questo blog nuovamente distesi. Buona domenica a tutti, vi saluta Bobby!

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4 Gillespie in 4 Giorni

Lo ammetto, nonostante i Primal Scream facciano musica da più di un quarto di secolo, non mi ci ero mai addentrata con attenzione. Avevo gli immancabili Screamadelica e Vanishing Point nell’i-ipod ma non conoscevo che una piccola parte del loro sound e non sapevo cosa aspettarmi dal nuovo Beautiful Future (uscirà il 18 luglio). Poi quando mi sono messa ad ascoltare la loro discografia completa ho capito che poco sarebbe cambiato: anche conoscendo tutti gli album non sai mai cosa succederà col prossimo. Non sapevo nemmeno cosa aspettarmi da un’intervista con Bobby Gillespie. Allo showcase della scorsa settimana l’avevo visto cantare e muoversi sul palco con fare un po’ scazzato, ho pensato fosse uno di poche e scortesi parole. Ma il mio fallibilissimo intuito non mi ha tradita nemmeno stavolta, nel senso che ha fallito di nuovo e Bobby Gillespie è stato un gentilissimo chiacchierone con due fantastiche basette.  Si è parlato un po’ di tutto: l’etichetta di drogati sfinitoni che il suo gruppo non riesce a scrollarsi di dosso, la mancanza di cultura che, a detta sua, sta rovinando la nuova generazione britannica; si è parlato di politica e pure della malattia dell’amore, che più ci fa male e più ne vogliamo. Il giorno dopo li ho rivisti suonare per la serata conclusiva del Meltdown Festival insieme agli MC5 (o ciò che rimane di loro); non penso sia stato uno show memorabile ma senzaltro divertente. Non sazia, il giorno successivo incontro per puro caso Gillespie a una mostra d’arte nella West End mentre come una deficente mi trovavo a canticchiare l’arpeggio di chitarra di Beautiful Summer (una delle preferite del nuovo album). Non so nemmeno perché fossi andata alla Whitecube Gallery, probabilmente per il titolo allettante della mostra: If Hitler Would Have Been a Hippy, How Happy Would We Be (fantastica, by the way). Dopo sbattere uno contro l’altro e qualche interminabile istante imbarazzo, Bobby sorride e mi porta sparato verso un pezzo esposto alla mostra e tutto entusiasta mi spiega cosa l’avesse colpito tanto. Ok, messaggio ricevuto, non oserò mai più ignorare la loro musica altrimenti sarò perseguitata! Il nuovo Beautiful Future è un bel pop-rock, poi dentro ci sono anche mille altre influenze ma non si tratta di un disco esclusivamente per stoner. Non sarà rock blues come il precedente Riot City Blues, che diciamolo, era un bel copiaticcio degli Stones e non avrà nemmeno i suoni elettronici o house di quello ancora precedente. Non posso dire altro perché ho firmato l’embargo e non vorrei mi venissero a prendere con l’elicottero non appena posto questo blog. Però che mi è piaciuto lo posso dire? Ciao Bobby, ci vediamo domani. (anzi domenica prossima visto che suoneranno ancora per il Festival di Hop Farm nel Kent e io sarò in prima fila in trepitante attesa dello zio Nello Giovane). 

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