Peace Trail: il tempo di Neil Young

Mi sento fortunata a vivere il tempo e lo spazio di Neil Young. Sentire l’eccitazione settimane prima di un suo show, vederlo un milione di volte senza mai sentire due concerti uguali, neppure in date consecutive. Mi sento privilegiata a potermi chiedere ogni volta: sentiamo un po’ che disco ha fatto adesso, ‘sto matto. Tanto lo sai che anche nel suo peggiore infila il brano in grado di farti rizzare i peli delle braccia.

Non sapevo cosa aspettarmi dal nuovo Peace Trail ma lo sto amando. Dinosauro un cazzo. Se l’età non è altro che uno stato mentale, con i Promise of the Real (la band dei figli trentenni di Willy Nelson con cui negli ultimi 18 mesi ha realizzato due album e un tour stellare) Neil Young è tornato ad essere un ragazzino brufoloso. Eppure è un bene che i fratelli Nelson abbiano risposto “no” alla chiamata per Peace Trail, perché già impegnati on the road. Così ha potuto chiamare l’amico Jim Keltner, il leggendario batterista che ha già suonato nel vostro disco preferito (quale? Ditene uno fondamentale del rock e lo beccate). Peace Trail è un meraviglioso dialogo fra i due: si scambiano le battute, s’impongono a vicenda il groove, si rincorrono in una stanza vuota. Un disco fatto di suoni scarni, prevalentemente acustici. Ma che all’improvviso affonda con coraggio nei più inquietanti assoli elettrici. Come se Shakey volesse pungolarci con la sua chitarra nei fianchi per stimolarci, destarci da qualche letargo.

Infatti, da quando apre la titletrack, Neil Young ci tiene incollati a una sorta di notiziario personale sul deprimente panorama attuale: dagli inganni dei mass media, alla protesta dei Nativi Americani contro la costruzione della Pipeline nel North Dakota (dove lo scorso novembre il canadese ha trascorso il suo 71esimo compleanno), dallo straziante stordimento dell’essere umano di oggi, incollato come uno zombie allo schermo del proprio smartphone, alla fobia degli attacchi terroristici che ci hanno reso tutti un po’ xenofobi. Un album impacchettato in 4 giorni con l’urgenza di chi non può tenersi dentro certe cose e deve condividerle nell’unico modo che conosce: in canzone.

I know that things are different now, I see the same old signs but something new is growing – canta in Peace Trail. Le cose son diverse sì, caro Neil. Sarà per questo che ti sei finalmente deciso a concedere la tua musica alle tanto denigrate piattaforme digitali. C’hai fatto una capa tanta con Pono e il vinile ma ora hai tolto le rizla dagli occhi e hai fatto lo sforzo di venirci incontro, di provare a capirci, noi generazione debosciata. Le cose sono così differenti che Young lascia persino filtrare la sua voce pura dal volgare auto-tuning, forse per conferire quel senso di artificiale in cui viviamo ogni giorno, o almeno questo è il messaggio che arriva.

In My Pledge (in cui si divide in due personaggi, uno reale e auto-tuned, appunto) ammette dunque di essere perso in questa nuova genrazione “Left me behind it seems, listening to the shadow of Jimi Hendrix… And everywhere I look I see people alone Alone with their heads looking in their hands Lost in the conversation stare”. Come ti capisco, Neil. Mesi fa ho parlato con un 26enne che non aveva mai sentito parlare di David Bowie. E che dire del senso di fastidio, di alienazione assoluta nella malattia della condivisione online. Gente stimata che scrive 15 post al giorno su Facebook… Le cose sono due: cedi anche tu oppure, grazie a chi ti sta intorno, ti osservi da fuori e fai di tutto per uscirne, perché ti dai fastidio da sola. Augurandoti di non impazzire, fai quello che senti giusto: I see what I see, and I want to do my duty.

I can’t Stop Working canta Neil e poi entra con una chitarra pericolosa quanto un avvertimento. Guarda che l’avevamo capito che non ce la fai a smettere di lavorare eh! Questo è dopotutto il suo 37esimo album. Lavorare di continuo “non fa bene al corpo”, un tour è estenuante a 30 anni, figuriamoci a 71, ma “fa bene all’anima e potrebbe pure tenerti in vita quando perdi il controllo”. E mi domando: chissà se l’hippie per eccellenza ha realmente smesso di fumare erba come dichiarava nella sua autobiografia 4 anni fa? Diceva di avere sempre composto fumando e si chiedeva cosa sarebbe successo alla sua musa ora che intendeva smettere. Magari lavora di continuo proprio perché ha smesso di fumare dopo una vita ed è costantemente schizzato? Sindrome che ben conosco. Oppure, come mi ha suggerito quel meraviglioso assolo di cinque ore e venti in Cowgirl in the Sand a Milano lo scorso luglio, non c’è mai riuscito? Ora indago con gli amici losangelini, va.

Texas Rangers ha una metrica insensata, forse è il brano più debole del disco eppure quello che dice fa rizzare le orecchie: i mass media sono giocattoli rotti, ingannevoli, incapaci di fornirci gli strumenti per comprendere il disastro che ci circonda. Quelli vanno cercati altrove. Mentre nell’orecchiabile e rilassato groove di Terrorist Suicide Hang Gliders descrive i nostri attentatori con una certa poesia: “Hidden there in the darkness, behind the reasons that you’re free”.

Ora ditemi, chi altri canta di queste cose oggi? Con la stessa pancia, con gli stessi suoni rischiosi, urgenti, inquietanti eppure, allo stesso tempo, rassicuranti. Perché ogni volta che una “r” si attorciglia nella bocca di Neil Young, io mi sento al sicuro, a ogni “carrrrpenterrr” che “brrring letterrrrrrs”, trovo un porto dove riposare: il conforto della voce di un padre spesso fumato ma che a modo suo, mi ha sempre amato alla follia. In un’intervista a Mother Jones, Young dichiara di avvertire oggi un’atmosfera simile a quella che si respirava prima che accadessero i ’60. Forse per questo si è espresso con i suoni essenziali di allora. Credo abbia ragione, non che abbia vissuto i ’60 ma siamo in procinto di enormi cambiamenti, non ci sono dubbi. Il 2016 è stato un annus horribilis e non vedo come possano migliorare le cose, considerando dove siamo arrivati. Ma la gente ha il potere. Lo ha già, non deve aspettare che qualcuno glielo dia, deve solo rendersene conto. E Neil ce lo ricorda in ogni singola frase di Peace Trail: alziamo gli occhi dal telefonino e puntiamoli intorno, filtriamo le informazioni, usciamo dalla confortevole realtà artificiale dei social. È il nostro tempo, il mio tempo, il tuo tempo. E grazie al cielo, anche il tempo di Neil.

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Dylan palesati: agli italiani rode il culo

Ho amici in tutto il mondo; sulla timeline di Facebook scorrono pensieri dall’India all’Australia, da Piave Pajaccia a Honolulu, da Tokyo al deserto del Mojave. Eppure i post al veleno basati su zero informazioni che supportino le proprie tesi riguardo Dylan, hanno tutti la stessa origine: l’Italia. Apprezzo il confronto, ho gioito per il suo Nobel ma ho anche ascoltato con piacere e interesse gli amici che pur amandolo – o anche no – si ponevano domande legittime: quanti altri scrittori e poeti meno celebri lo avrebbero meritato? Non avrebbe dovuto vincerlo una trentina di anni fa? C’era bisogno di un Nobel per legittimare il potere letterario di un testo? Possono considerarsi dei versi di canzone in maniera del tutto staccata dalla melodia che accompagnano? E così via.

Mi rendo conto sia fastidioso leggere una generalizzazione del genere ma dopo avere osservato per mesi in silenzio e letto centinaia di post fino all’ennesima minchiata di oggi (il post pubblico di un presunto giornalista e autore che critica Patti Smith – “una delle più grandi e svergognate approfittatrici della storia del rock” – per avere accettato l’invito della Commissione di Stoccolma) non riesco più a trattenermi. Agli italiani rode il culo, è un dato di fatto. Ho letto tweet e commenti di giornalisti italiani – famosi perché partecipano a spettacoli di intrattenimento televisivo – che ridicolizzavano il Nobel di Dylan salvo conoscerne i testi. E badate, è antipatico fare nome e cognomi ma se scrivo questo è perché ho la certezza di ciò che dico. Non lo conoscono eppure ne parlano male attraverso un profilo pubblico guadagnato a suon di talent show. Ma allora, la tua critica, a cosa serve? Quale discussione interessante può scaturire se conosci solo due frasi di Blowing in the Wind o se disgraziatamente ti capitasse di ascoltare i suoi brani alla radio, non sei in grado di capire tre parole di fila? (molti di tali giornalisti inciampano vergognosamente sull’inglese). Persino noi fan abbiamo difficoltà a conoscere l’immensa mole di lavoro che ha prodotto, figurarsi. Che poi si ridicolizzano da soli. Come diceva Nanni Moretti: «Parlo mai di astrofisica io? Parlo mai di biologia io? Parlo mai di neuropsichiatria? Di botanica? Di algebra? Di agiografia greca?… ». Perché nel nostro paese leggere critiche con cognizioni di causa è utopistico? A cosa minchia serve il giornalismo?

Tutti sanno cosa avrebbero fatto se fossero Bob Dylan: si sarebbero presentati per dio! Oppure non avrebbero preso tutto quel denaro, è logico! Nessuno si pone il quesito di cosa significa svegliarsi la mattina ed essere Bob Dylan. Di cosa significa avere oggi un mondo diverso perché si è venuti al mondo, perché loro, come me, fossero nati o meno, non sarebbe cambiato assolutamente nulla. A nessuno è venuto in mente che un uomo di 75 anni possa non stare bene fisicamente o di testa? Beati voi. Perché io non riesco a pensare ad altro da settimane, soprattutto dopo un anno così funesto. Mi sono giunte voci di un altro gigante della musica – insospettabile – che avrebbe perso la facoltà di parlare normalmente in pubblico e dunque sì che ci penso. Magari Dylan non ha “scapocciato” come temo, e si sta semplicemente comportando da Dylan, chi lo segue da anni sa cosa intendo. Ricordiamo anche di come sia riuscito a tenere completamente blindata la propria vita privata, di come online non esista neppure mezza foto o dichiarazione della ex moglie e musa Sara, ad esempio. Non sapremo mai i veri motivi ma nel dubbio ci piace sputare veleno, perché agli italiani rode il culo, e forte.

Ora vi chiedo, senza supponenza ma con il cuore in mano: cosa diavolo vi è successo? Perché i miei amici anglosassoni – inclusi artisti di rilievo per dire – non fanno altro che dirmi: “Amo la passione di voi italiani, noi inglesi siamo cresciuti con intorno gente che nascondeva di continuo le proprie emozioni”. Dove è finita quella passione? Il grande cuore degli italiani, così caldi e alla mano rispetto agli algidi britannici? Facebook ha dato voce a ogni pensiero da bar di chicchessia (sempre bella sta parola) ma qualcuno sa spiegarmi storicamente da dove originano le spremute di vomito gratuite? Il livore esiste ovunque, ovvio ma perché è così concentrato nel nostro paese?

Coraggio, ritrovate quella passione che vi ha reso adorabili e unici in tutto il mondo. Criticate chi volete, buttate quintalate di merda su Dylan se lo ritenete opportuno ma argomentatela, cazzo. E se non vi commuovete neppure davanti a questo video della più dolce Patti Smith di sempre, state attenti, perché un pollo di plastica marcio ha preso il posto del vostro cuore. E non sono tempi questi per lasciare accadere cose del genere.

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The world is holy

Giorni fa Patti Smith è salita sul palco di Hyde Park e mi ha ricordato perché nonostante i miliardi di traslochi in cui mi sono imbattuta questi anni, quel piccolo libretto dalla copertina bianca e nera intititolato Howl non ha mai smesso di essere sul mio comodino. Come un amico che non sa tradirti, un compagno di sbronze, una presenza costante in cui specchiarsi e convergere le illusorie dimensioni temporali.
Certo, sentirla recitare da Patti è tutta un’altra storia e mi si rizzano ancora i peli delle braccia a pensarci. Lei che Allen Ginsberg l’ha incontrato la prima volta per destino, grazie ai pochi cents che le mancavano per comprarsi un paninio. Lei sì che è la persona giusta per ricordarci oggi e sempre che siamo sacri. Che tutto è  sacro, anche il buco del culo. A cosa serve la paura quando in cuore senti la verità di questi versi?
Holy! Holy! Holy! Holy! Holy! Holy! Holy! Holy! Holy! Holy! Holy! Holy! Holy! Holy! Holy!
The world is holy! The soul is holy! The skin is holy! The nose is holy! The tongue and cock and hand and asshole holy!
Everything is holy! everybody’s holy! everywhere is holy! everyday is in eternity! Everyman’s an angel!
The bum’s as holy as the seraphim! the madman is holy as you my soul are holy!
The typewriter is holy the poem is holy the voice is holy the hearers are holy the ecstasy is holy!
Holy Peter holy Allen holy Solomon holy Lucien holy Kerouac holy Huncke holy Burroughs holy Cassady holy the unknown buggered and suffering beggars holy the hideous human angels!
Holy my mother in the insane asylum! Holy the cocks of the grandfathers of Kansas!
Holy the groaning saxophone! Holy the bop apocalypse! Holy the jazzbands marijuana hipsters peace peyote pipes & drums!
Holy the solitudes of skyscrapers and pavements! Holy the cafeterias filled with the millions! Holy the mysterious rivers of tears under the streets!
Holy the lone juggernaut! Holy the vast lamb of the middleclass! Holy the crazy shepherds of rebellion! Who digs Los Angeles IS Los Angeles!
Holy New York Holy San Francisco Holy Peoria & Seattle Holy Paris Holy Tangiers Holy Moscow Holy Istanbul!
Holy time in eternity holy eternity in time holy the clocks in space holy the fourth dimension holy the fifth International holy the Angel in Moloch!
Holy the sea holy the desert holy the railroad holy the locomotive holy the visions holy the hallucinations holy the miracles holy the eyeball holy the abyss!
Holy forgiveness! mercy! charity! faith! Holy! Ours! bodies! suffering! magnanimity!
Holy the supernatural extra brilliant intelligent kindness of the soul!
 
Forward to “Howl” by Allen Ginsberg,
Berkeley 1955

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No Bregrets (e l’Unione dei pirla)

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Come? Il mondo pensa che vogliamo uscire dall’Europa? Ma dai, scherzavamo! “Bregret” (da regret che significa rimorso) è senz’altro il neologismo più stronzo del momento, secondo per antipatia soltanto a “Brexit”. Mi prudono le mani e non posso tacere. Bregret una sega! Come si fa a prendere alla leggera un voto del genere? Yes, anche gli inglesi sono  pirla, esattamente come noi italiani e tutti gli altri, insieme siamo l’unione più forte: l’Unione dei Pirla, la UP.

In Inghilterra si è destato un popolo di pentiti: chi ha dichiarato che il proprio voto era solo un atto di protesta, nella certezza che poi sarebbero rimasti nella UE, e chi si è reso improvvisamente conto che la campagna del “leave” si basava su un mucchio di stronzate. Stamattina Nigel Himmler Farange con gran nonchalance ha dichiarato durante il notiziario di ITV Good Morning Britain che dopotutto non era vero si sarebbero risparmiati 350 milioni di sterline a settimana in favore della sanità pubblica se fossimo usciti dall’Europa. Ma come… E quei bus con la scritta cubitale “Let’s give our NHS the £350 million the EU takes every week”? Good morning Britain! Ma vi siete già scordati le innumerevoli promesse mai mantenute su NHS? È sempre illuminante osservare la memoria corta dei popoli. Tony Blair un bel giorno ha persino ammesso di averci mentito sulle armi di distruzione di massa pur di entrare in guerra in Iraq. «Tanto in guerra ci sarei andato lo stesso, tiè» ha dichiarato nel 2009 e nel 2014 GQ magazine l’ha eletto Philantropist of the Year: geniale. Ora però la gente è incazzata eh. Ora non si fidano davvero. Stamattina Boris Johnson è stato aggredito verbalmente da una folla fuori casa; gliene hanno gridate quattro. Per almeno due settimane saranno davvero incazzati eh!

Ma torniamo al Signor Faccia di Formaggio Cameron. Il referendum l’aveva promesso agli amichetti conservatori e non poteva certo sottrarsi. Ci saluta dopo anni di grandi tagli ed efficaci manovre intese ad aumentare il più possibile il divario tra super ricchi e tutti gli altri, alias super poveri stronzi. Ma prima un ultimo danno finale: si dimette senza pronunciarsi sull’articolo 50.

Ed eccoci qui, nel caos più totale. La cosa più divertente è che leggendo commenti di italiani deliranti su Facebook, ciascuno sembra avere una visione chiara e completa di cosa accadrà. Mentre qui, più ci si informa e più non si capisce una cippa. La gatta bollente da pelare, ovvero la dichiarazione formale di volere uscire dalla UE secondo quanto descritto dall’articolo 50, non la vuole nessuno. L’unica cosa buona è che questo potrebbe togliere dal gioco quell’altro cialtrone pro Inghilterra vittoriana di Boris Johnson. Mi auguro almeno.

Ma la vera notizia è questa: d’ora in poi gli inglesi – che ricordiamolo: subito dopo avere votato “leave” hanno trascorso la giornata a googolare “What is UE?” – perdono un diritto fondamentale, quello di sfottere brutalmente e a senso unico la politica italiana. Tra l’altro, sotto campagna elettorale anche i loro dibattiti televisivi sembravano improvvisamente ispirarsi alla tv italiana, persino Jeremy Paxman non riusciva a gestire le mille opinioni gridate senza grazia. Ricapitolando: mescola tante opinioni buttate a casaccio, aggiungi statistiche del tutto prive di fondamento, togli fatti concreti et voilà, l’elettorato è intortato.

E nemmeno la storia che i vecchi hanno deciso per i giovani è così vera: solo il 36% dei ragazzi tra i 18 e 24 anni avrebbero votato. Sarebbe meglio dire che la nuova generazione se ne è infischiata del proprio futuro. Ora vediamo come riusciranno a ritrattare tutto questo casino. L’ho sempre detto io che la gente di South Park è la migliore rappresentazione della popolazione mondiale. Faccio i pop corn e continuo a godermi lo show surreale. Bregret un cazzo.

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Inarrivabile PJ Harvey

PJ Harvey, Field Day, London 10/6/2016 Photo © Chiara Meattelli (The © is not for decorative purposes, you can’t use these pictures without authorization)

Mi è preso un groppo di commozione quando ho visto il nostro Enrico Gabrielli salire sul palco con PJ Harvey e la sua fantastica band. Avrei voluto scattargli più foto, avrei voluto scattarne anche a Mick Harvey e all’altro orgoglio italiano Alessandro “Asso” Stefana ma il tempo era poco e quando lei è arrivata, non sono più riuscita a staccarle le lenti di dosso.

Magnetica. Inarrivabile come il nuovo album The Six Hope Demolition Project, un’opera d’arte complessa e raffinata messa in musica. È un mese che l’ascolto, non mi si toglie dalla testa. Ecco, se ogni anno potessimo avere anche un solo disco così, ne sarei felice, mi basterebbe. Potente anche dal vivo. PJ teatrale. Guardo le immagini dello show e mi sembra di avere scattato un’attrice del Kabukishire. Mi invoglia a scrivere un romanzo,  a prendere la chitarra e cantare, comporre una canzone che lì per lì mi sembra bellissima e il giorno trovo vomitevole. Ma non è quello il punto. È che mi spinge a creare, fare, non mollare nonostante tutto. Cos’altro serve l’arte se non a ispirare? Sarà per questo che sto quasi pensando di riesumare questo defunto blog. Ho detto quasi eh…

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Adam Green a Camden, Italì

E’ sempre una gioia vedere Adam Green dal vivo, ovvero il più grande antidepressivo umano in circolazione. Da accanita fan dei Moldy Peachers ho avuto modo di vederlo tante volte negli ultimi 10 anni tra Londra e New York e venerdì scorso, nella sua versione acustica, accompagnato dalla “pesca marcia” Toby Goodshank al Dingwalls di Camden Town, era in splendida forma. Né ubriaco, né troppo fumato, semplicemente perfetto. Ha infilato una canzone dopo l’altra, da grandi classici come Friends o’Mine, Jessica Simpson, No Legs e Dance With Me alle più recenti Here I am, Buddy Bradley e Minor Love. Si è anche esibito nelle sue folli, esilaranti danze cantando con una delle sue migliori voci di sempre.

Ora, va bene che Camden è da sempre un territorio molto italiano e che negli ultimi due anni ci sono più italiani a Londra che in Italia ma qualcuno sa spiegarmi perché al concerto di Adam Green, mentre lui si congeda con The Prince’s Bed a cappella, debba sentirmi urlare nell’orecchio “Còdio Eliaaaa” con una veemenza terrificante? Cosa spinge un essere umano, di qualsiasi nazionalità s’intende, a pensare che il delicato momento off-mike di una performance acustica sia quello perfetto per gridare una bestemmia all’amico che si trova dall’altra parte della sala? Qualcuno sa poi spiegarmi cosa spinge una ragazza (mi spiace ma era italiana anche lei) a “cantare” sopra ogni parola di ogni canzone pur non conoscendo mezza parola di ogni singola canzone? Immaginate l’effetto terrificante di una che prova a fare una dettagliata eco a un testo sconosciuto, a tutto volume? Ovviamente mi stava a fianco. Di cosa si tratta, di mera stupidità o maleducazione?

Fine sfogo. Tempo di far partire un album di Adam Green e ricominciare a sorridere! La mia recensione dello show la troverete invece su Buscadero del prossimo mese.

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Jonathan Wilson @Assembly Hall, London

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Jonathan Wilson & His Band. Photography © 2013 Chiara Meattelli 

E’ musica da ascoltare con il cuore, più che con la capoccia. Lo dico senza retorica. Sono ormai rimasti in pochi a suonare come Jonathan Wilson e la sua strepitosa band. Tutta questione di sound. Ed è sublime perdersi dentro. Fanfare è stato uno dei migliori album di questo 2013 e tra i più importanti. Non perché abbia portato qualcosa di nuovo – le varie citazioni e riferimenti sono tutt’altro che casuali – ma perché rappresenta un’era che sta scomparendo. “Se li ho voluti è stato per un motivo del tutto egoistico” mi ha detto Jonathan del super cast di ospiti di cui si è servito (Jackson Browne, David Crosby, Graham Nash, Roy Harper e gli Heartbreakers Mike Campbell e Benmont Tench). “Quando i più grandi se ne saranno andati, infatti, potrò sentire la musica che abbiamo creato insieme e ricordarli sorridendo”. 

Nonostante l’abbia visti dal vivo innumerevoli volte, il concerto sold out alla Assembly Hall di Islington è stato speciale: best gig of the year per quanto mi riguarda. Più di ogni altra cosa sono e saranno le canzoni a parlare: sia su disco che dal vivo, Fanfare è un gioiello senza tempo. Un “classico” da tenere in vinile e mai troppo lontano dallo stereo. Che non se ne può più della moltitudine di album che si ricevono quotidianamente via mail e posta. Bisogna passarci del tempo con la musica per godersela in pieno. Ma per farlo c’è bisogno di qualcosa che rimanga.

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Welcome back, Midlake

Tutto è successo nel giro di un anno esatto: vedere l’autore e vocalist Tim Smith lasciare la band, perdere due anni di lavoro per un disco, riscriverne uno nuovo da zero, registrarlo e pubblicarlo. Oggi esce Antiphon, il quarto album dei Midlake. Sono diversi e sono uguali a prima. Sono ancora in grado di creare meraviglia.

More soon, su carta stampata. Nel frattempo ecco la galleria fotografica del concerto sold out alla Islington Assembly Hall dello scorso 23 ottobre.

All images are © Chiara Meattelli

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This is Radio Clash

Chi siamo? Da dove veniamo? Qual è il senso della vita? Ma soprattutto: cosa è successo al basso di Paul Simonon subito dopo che venisse immortalato sulla copertina di London Calling dalla fotografa Penni Smith? Quel pezzo di legno incazzato e minaccioso, sospeso nell’aria un istante prima di schiantarsi sul palco, è tutto il rock di cui questo mondo ha bisogno. Quando me lo sono trovato davanti, dentro la sua bara Fender trasparente, per qualche minuto sono caduta in una sorta di trance mistica: le parole non bastano. E’ senz’altro quello il pezzo forte del pop-up shop Black Market Clash al 75 di Berwick Street, nel cuore di Soho (a dirla tutta le leggendarie relique del basso dal 2009 sono in esposizione alla Rock’n’roll Hall of Fame di Cleveland, Ohio e rappresentano l’unica attrazione convincente di uno stato oltremodo sfigato del Midwest).

Dentro il negozio dei Clash ci sono una marea di memorabilia oltre al cofanetto dei sogni per ogni fan, con tutti i remastered (in vendita a poco meno di £100). Non è stato aperto a lungo, circa due settimane, e il mio post arriva in ritardo: questo è l’ultimo weekend in cui è possibile visitarlo (sabato dalle 12 alle 8pm e domenica dalle 11 alle 5pm). Se siete nei dintorni consiglio di non perderlo, agli altri resta la galleria fotografica qui sotto. Chi è in vena di pellegrinaggi in futuro può sempre fare una capatina qui a Ladbroke Grove, alias Clashlandia, dove ogni angolo risuona con le note dei Clash. Dove capita di incontrare il timido Mick Jones, col suo immancabile impermeabile e pallore fluorescente, che beve mezze pinte di birra di pub in pub. Potete passeggiare per Oxford Gardens, dove nella cucina di casa Simonon, al numero 53, i Clash hanno posato per la back cover di Cut the Crap oppure per Lancaster road, dove al 37 viveva Joe Strummer. Ora che ci penso dovrei ribattezzare questo blog The Clashtown Massacre: dove altro potevo finire dopo le Guns of Brixton?!

Video consigliato: Westway to The World, (questo il link) il documentario sui Clash di Don Letts, storico DJ rasta che ha messo la colonna sonora alla scena punk.

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Se Portofino è in Galles…

 

Oh Inghilterra, mia fangosa Inghilterra! Certo che t’amo ancora ma avendo superato i trenta, trovo un po’ difficile abbandonarmi all’idea romantica del festival musicale. Non che disdegni dormire in una tenda quando fuori sono 10 gradi ad agosto. Non che detesti quando inizia una pioggia torrenziale nel momento esatto in cui devo montare la suddetta tenda o smontarla. Adoro non potermi lavare per tre giorni e rotolarmi nel fango con la macchina fotografica che ho comprato facendomi un mazzo tanto. Amo scrivere gli articoli nell’area stampa dove bisogna lottare col sangue per guadagnarsi una sedia e guai a dimenticarsi il lucchetto per il laptop. E’ stupendo non avere segnale al cellulare e dover far affidamento su una connessione internet lenta: rende la collaborazione per gli isterici quotidiani ancora più eccitante e simpatica. Oh! Amato Glastonbury Fest! Dove un palco dista dall’altro 20 miglia e vai sicuro che ti chiederanno di recensire Jay-Z quando dentro muori per sentire Jack White a soli 15 minuti di corsa di distanza. Davvero, amo tutto questo. Ciononostante, da un paio di anni, ho preso una decisione: andrò ai festival solo ed esclusivamente in veste di fotografa per qualche band o come ospite, senza dormire in tenda, senza far code per pisciare o mangiare, senza dover subire forzati concerti di Lady Gaga e smili.

Lo scorso weekend ho accompagnato i Colorama (se non li conoscete ancora nel link potete ascoltare l’ultimo splendido LP Good Music) al Festival Number 6, a Portmeirion, in Gwynned, Galles del Nord. Non avevo avuto tempo per informarmi su dove stessi andando dunque ciò che mi sono trovata davanti è stato ancora più surreale. Portmeirion è la visione di un architetto – Sir Bertram Clough Williams-Ellis – che ispirandosi ai paesaggi di Portofino, ha progettato un villaggio Mediterraneo sulla costa del Galles. Molti inglesi lo conoscono perché sede della serie televisiva  sci-fi degli anni ’60 The Prisoner  . William-Ellis ha impiegato 50 anni per portare a termine il suo strambo sogno, dal 1925 al 1975, poi è morto a 94 anni, col cuore soddisfatto. Purtroppo non ho avuto molto tempo per passeggiare e la galleria fotografica qui sopra l’ho scattata di corsa, mentre guardavo intorno a bocca aperta. La colpa è del meteo, of course. C’era stata una bufera poche ore prima che ha causato ritardi all’intero Festival (cancellata la gig delle Staves, cazzo). Ma tornerò. Magari alloggiando in una di quelle casine colorate (sono hotel che ospitano turisti tutto l’anno). Perché di tutti i Festival che ho visto questo è semplicemente magico.

PS “I’m not a number, I’m a free man” ripeteva il protagonista di The Prisoner, alias “Mr Number 6″…

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